Cultura Arte

Regole e soffi di colore, nuvole in viaggio nel cielo programmato di Antonio Scaccabarozzi

Autrice: Cristiana Campanini - Art Around

 

Schivo, dedito all’astrazione per una vita intera, ogni composizione dell’autore lombardo si può far ricondurre a una sequenza programmata di punti, linee, ritmi e colori.

Nella quiete nebbiosa dei lunghi inverni a Montevecchia, prima altura a sollevare lo sguardo sulle vastità della campagna lombarda, Antonio Scaccabarozzi (1936-2008) nutriva il suo immaginario di regole e di misure, tra poesia e metodo. Viveva ritirato, perfino isolato si potrebbe azzardare, considerando la tranquillità irreale che si respira in quel luogo, pur restando ben sintonizzato e informato sulle ricerche dei colleghi milanesi, in fondo a qualche decina di minuti di auto dal suo nido.

Antonio Scaccabarozzi, 1982-83. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi.

Era un artista schivo ma molto vicino ad artisti come Antonio Calderara, Gianni Colombo, Dadamaino. La sua casa era anche il suo studio, un luogo raccolto, di piccoli spazi, dove consumava il suo preciso rituale della creazione, sempre uguale a se stesso e ogni volta diverso.

Punto, linea, ritmo, colore, abitavano le sue composizioni. Quelle sue regole, o meglio quei programmi come li chiamavano i colleghi milanesi dell’arte cinetica, erano al centro di ciascuna composizione. Su questi elementi primari si gioca tutta la sua opera. Da lontano parrebbe un fatto metodico, glaciale, come i suoi appunti fitti di sequenze di numeri, che avrebbe tradotto poi in una composizione, ma approssimandosi alle composizioni, come si è potuto fare nella bella retrospettiva ospitata al Museo del Novecento nel 2022 e curata dalla storica dell’arte Gabi Scardi, pulsava una temperatura emotiva inaspettata dal suo lavoro. Incontriamo così i primi puntini su un foglio a distanze variabili negli anni Sessanta. Sono disposti secondo schemi ripetibili all’infinito. Ancora puntini, questa volta scavati a rilievo su carta, con fustelle di diverse dimensioni. La ritmica dell’ombra qui irrompe nell’opera, insieme a delle tracce di colore, una presenza costante, ma più spesso pastellata, che timbrica.

Antonio Scaccabarozzi, Superficie sensibilizzata, acrilico su tela, 1966, cm. 130 x 100 (Vandrasch) copia. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi.
Antonio Scaccabarozzi, Azzurro per Fabio, acrilico su tela, cm. 37 x 27. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi.

L’aspirazione presto diventa addirittura quantitativa, quando congegnava le misure da cui materializzare le opere. In alcune di queste ha letteralmente dosato la sua astrazione in milligrammi o in centimetri cubi per diluirla in sfumature programmate, dichiarandone perfino il peso dei colori. Si scorgono però anche scarti ironici e ogni scelta appare accompagnata da un certo distacco, da un relativismo da contestatore maturo.

Stupiscono due aspetti, navigando attraverso questo suo lungo viaggio nella creazione. Il primo è l’evidenza delle sue intenzioni: il calore inatteso sprigionato da un’opera mossa da regole così scientifiche. Il secondo è la perfetta consonanza tra segno e spazio.

Il suo viaggio iniziava negli anni Sessanta, attirato dai temi percettivi che dilagavano nell’arte di quegli anni, un’arte che si liberava dalle lacerazioni soggettive del dopoguerra e dalla pittura informale per aspirare a una dimensione più oggettiva dell’opera, a una sua pretesa di scientificità. Seguono molteplici variazioni nel corso di una vita intera. Tra astrazione ottico-percettiva, pittura analitica e arte concettuale, Scaccabarozzi aspirava a raggiungere un equilibrio statico/dinamico tra il nostro sguardo e la ritmica imposta dall’opera. A quella ricerca, a quell’inganno visivo, non ha mai dato tregua, da instancabile ricercatore. Erano queste le linee guida a presiederne l’opera a tratti misteriosa, che conferma come la storia dell’arte, soprattutto milanese, sia ancora un giacimento ricco di pepite, fuori dalle rotte più prevedibili. E anche l’errore è al centro delle sue scansioni. È assorbito dall’opera, come parte stessa del suo programma, forzandone limiti e confini, in una vera e propria poetica dell’imprevisto.

Ritratto di Antonio Scaccabarozzi, 1976. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi.
Ritratto di Antonio Scaccabarozzi, 1969. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi.

Finché arriva una svolta, sempre più libera. L’opera si sostanzia di sola materia pittorica, seguendo ritmo, gesto e direzione. Restano solo pennellate di colore rappreso, senza più alcun supporto. Negli anni Duemila, ancora non si è contratta la sua forza generatrice e innesca un’ennesima personale rivoluzione. Scaccabarozzi affida il suo immaginario a un materiale umile come i sacchi della spazzatura. Sono leggerissimi e semitrasparenti. Li dispone a veli sovrapposti per sollevarsi a ogni respiro, come una soglia, come una velatura, un soffio di colore. La pittura qui scompare ma è il trompe l’oeil a imbrigliare tutta la potenza espressiva ancora racchiusa nella sua inarrestabile immaginazione. Non resta che giocare con la nostra memoria, fin nei titoli. Ed ecco materializzarsi “Eclissi”, “Banchise” e “Cancelli”.