Cultura Arte

L’occhio selvaggio di Arturo Schwarz, oltre la galleria

Autrice: Cristiana Campanini - Art Around

Filosofo, poeta e critico. Collezionista e gallerista-editore. Il suo viaggio libero nella storia dell’arte del Novecento, tra dada, surrealismo e seconde avanguardie.

Ritratto di Arturo Schwarz scattata in occasione dei 90 anni festeggiati alla Fondazione Mudima nel 2014. Foto di Fabio Mantegna.

Come si fa a commerciare arte? La domanda è secca, immediata e schietta, com’era Oliviero Toscani. Incalzava Arturo Schwarz (Alessandria d'Egitto, 1924 – Genova, 2021) in una chiacchierata dalla regia suadente di Philippe Daverio. La risposta era limpida, ma anche fluviale per l’energia trasmessa, e allo stesso tempo poetica, nelle perfette corde del collezionista, ma anche poeta e filosofo e soprattutto, nella nostra prospettiva, gallerista-editore (binomio ricorrente nella storia del mercato del Novecento, a partire dai pionieri come Paul Durand-Ruel, angelo custode degli impressionisti).

Ecco la ragionevole sintesi di Schwarz: «Le qualità necessarie a commerciare arte sono due. La prima è l’occhio, un occhio allo stato selvaggio, un occhio straordinario come quello di André Breton, ad esempio. È un diapason che sa vibrare in concomitanza con le onde emesse dall’artista. Le riconosce e vibra. La seconda qualità è ugualmente importante. Ed è la cultura». 

Gillo Dorfles con Nino Soldano alla Fondazione Mudima in occasione della mostra dedicata alla Galleria Schwarz, 1995. Foto di Faycal Zaouali.

Intuito e spirito di osservazione, quindi, sono la prima qualità per Schwarz, da associarsi a una profonda conoscenza e consapevolezza culturale, competenze dalla prospettiva vasta e allargata, a dominare orizzonti ben più ampi della sola arte. Sono queste le antenne che un gallerista deve saper mettere in campo e sintonizzare se vuole potersi orientare nelle scelte.

L’occhio selvaggio è un’espressione mutuata dalla storia del surrealismo, a cui Schwarz rivolge tutte le sue cure per una vita intera. Il gallerista, infatti, citava l’amico André Breton, che conosceva per un lungo scambio epistolare iniziato in adolescenza. “L’occhio esiste allo stato selvaggio”, scriveva l’artista in un saggio dedicato all’immaginario surrealista, trasgressivo e a perdita d’occhio, come affascinava Schwarz.

“Le meraviglie della terra a trenta metri d’altezza, le meraviglie del mare a trenta metri di profondità hanno come solo testimone l’occhio selvaggio che per i colori si riallaccia sempre all’arcobaleno”. Basta un breve cenno a queste parole, per sintonizzarsi su una storia personale e professionale che ha attraversato il Novecento, a lungo custode dell’arte surrealista, a partire dalle primissime mosse della sua attività milanese, che in origine era stata irrimediabilmente politica.

La fede trotskista (ferrea fino a quando si allontanava da quegli ideali a metà anni Sessanta, dismettendo lo pseudonimo di Tristan Savage, uno dei fondatori della IV Internazionale trotskista in Egitto), lo portava a terribili persecuzioni nel suo paese di origine, l’Egitto, che lo considerava un pericoloso sovversivo. Qui la sua attività di editore aveva un’interruzione brusca a causa del carcere durato 18 mesi di torture.

Arturo Schwarz alla Fondazione Mudima nel 1995. Foto di Faycal Zaouali.
Arturo Schwarz tra le opere della sua collezione al fianco di Emilio Tadini e di Gino Di Maggio. Foto di Faycal Zaouali.

Nato in una famiglia ebrea, da padre tedesco e da madre italiana, aveva studiato scienze naturali all'Università di Oxford e filosofia alla Sorbona di Parigi, per questo spaziava negli interessi dalla cabala all’alchimia, dalla storia alla pittura, dalla psicanalisi alla poesia.

«L’espressione più diretta della personalità e dell’essenza umana», spiegava in un’intervista a Ginevra Bria. Il Surrealismo era al centro, ma non solo, anche il dadaismo e le seconde avanguardie. Le frequentava nella Milano dagli anni Cinquanta, da Piero Manzoni a nuclearisti come Enrico Baj, ma anche Arman e Lucio Fontana.

Arturo Schwarz e il mondo dell'arte milanese alla mostra dedicata alla Galleria Schwarz dalla Fondazione Mudima nel 1995. Foto di Faycal Zaouali.

A Milano giungeva nel 1949, esule per questioni politiche. Qui, sempre al fianco di maestri e compagni di strada come Breton o il poeta Elio Vittorini, fondava in via Sant’Andrea nel 1954 una libreria-galleria, che inaugurava con una mostra di Marcel Duchamp, per trasferirsi dal 1961 al 1975 in Via del Gesù. Nelle sue sale, in quel ventennio fitto (raccontato per esteso da una pubblicazione edita da Fondazione Mudima del 1995, “Arturo Schwarz. La galleria, 1954-1975”) si potevano incontrare opere di Francis Picabia, Man Ray, Daniel Spoerri, Asger Jorn, Max Ernst, Marcel Duchamp, autori che “allargavano l’orizzonte visivo e mentale”, di cui spesso comprava l’intera mostra in mancanza di collezionisti (centinaia di opere della sua collezione sono oggi alla GNAM di Roma e all’Israel Museum di Gerusalemme, mentre archivio e biblioteca di 31mila volumi sono custoditi dall’Archivio Apice dell’Università degli Studi di Milano).

Negli anni è stato anche autore di testi critici definitivi come "The Complete Works of Marcel Duchamp”, due volumi pubblicati nel 1969; oppure "Il surrealismo. Ieri e oggi. Storia, filosofia, politica”, 10 anni di studi dati alle stampe nel 2014, per un surrealismo come filosofia dell’esistenza più che movimento concluso. Il gallerista Arturo Schwarz, insomma, era critico e intellettuale a tutto campo. Usava il mercato per esercitare la sua libertà nel riscrivere la storia dell’arte. Per lui, come per l’amico Breton, quell’occhio allo stato selvaggio era un inno a una visione assoluta, che aveva una supremazia su tutti gli altri sensi.