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Scultura lingua viva, la ricerca dell'ineffabile di Amalia Del Ponte

Autrice: Cristiana Campanini - Art Around

Prismi in plexiglas, ambienti interattivi, onde luminose e sonore, ma anche design e architettura. È questo il viaggio nella quarta dimensione dell'artista milanese.

Amalia Del Ponte dentro il pozzo a gradini di Chand Baori ad Abhaneri in India. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.

Volume e corpo della scultura sfuggono come i riflessi mutevoli dell’acqua e del cristallo. L’opera di Amalia Del Ponte (Milano, 1936) si smaterializza fino a spalancarsi alla luce e addirittura al suono. Verve critica bruciante confluisce in una tensione verso l’assoluto nel suo lavoro. Da sempre sfuggente rispetto a qualsiasi posa leggera o mondana dell’arte, dedita a un impegno strenuo nella ricerca plastica, a coniugare arte e architettura in una sola visione, ma anche i suoi vasti interessi scientifici, dalla fisica alla mineralogia fino alla materialità del suono.

Profilo di Amalia Del Ponte sull’opera “Temporale” del 1987, una delle pietre sonore di Amalia Del Ponte. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.
“Avanzano fino all’orlo e s’infilano” del 1965 la foto è stata scattata in occasione della mostra “Scultura nella casa” curata nel 1965 da Gillo Dorfles alla Galleria Montenapoleone di Milano. Ph. Issima. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.

Allieva nell’aula di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera a fine anni Cinquanta, interpreta il suo lavoro nelle arti plastiche, fin dagli esordi, come una riflessione più vasta sullo spazio dell’opera.

Tutto ha inizio con la lettura del saggio “Scultura lingua morta” di Arturo Martini, pietra miliare per una generazione. Costante da allora è il tentativo di abbracciare una quarta dimensione, concepita come un volume da violare e da attraversare con lo sguardo o con il corpo.

Volevo rendere la scultura meno statica, dare valore alla luce e coinvolgere ma anche disorientare chi guarda.

Amalia Del Ponte mentre suona la pietra sonora “Pensieri curvi” del 1986 in marmo serpentino d’Italia. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.

Inizia i suoi studi su prismi e rifrazione della luce a metà anni Sessanta, prima sul cristallo di rocca, poi trafficando con le materie acriliche. Il plexiglas, che ha un indice di rifrazione simile al vetro e all’acqua, diventa in questo primo decennio il protagonista. La sua ricerca lambisce ben presto anche l’architettura, con progetti d’interni futuribili, tra appartamenti e negozi, ma anche borse, gioielli, oltre a multipli, ambienti, installazioni e opere sonore. «Per guadagnare la pagnotta», minimizza l’artista. «Non volevo sentirmi imbrigliata con una galleria, né impegnarmi nell'insegnamento così ho imboccato la strada del design».

Anelli disegnati da Amalia Del Ponte nel 1968 in argento e alluminio anodizzato per l’editore di gioielli d’artista GEM Montebello. Ph. Ugo Mulas. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.
Bracciale in legno, alluminio e plexiglass disegnato da Amalia Del Ponte nel 1968 per le edizioni GEM Montebello. Ph. Ugo Mulas. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.
Collana disegnata da Amalia Del Ponte nel 1968 per le edizioni GEM Montebello. Ph. Ugo Mulas. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.

Nasce Gulp, negozio in via Santo Spirito con nome da fumetto per pionieri del prêt-à-porter. Segue un emporio cult che fa epoca per decenni, Fiorucci in San Babila, opera d’arte totale, che accoglieva la sua personalità d’artista fin nella grafica del logo e nel packaging.  Amalia Del Ponte apre lo spazio a plurime visuali. Smantella pareti. Buca tavelloni. Così lo rende trasformabile, ma anche permeabile allo sguardo e alla luce, per occhieggiare, fin dalla strada, le signorine in minigonna. Il gioco di specchi permette d’indagare nell’interrato, le moderne cenerentole alla prova di “scarpe beat e di sandali pop”.

Piccola borsa in pelle saffiano colorata all’anilina disegnata da Amalia Del Ponte nel 1965 per il negozio “Cose” di via della Spiga a Milano. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.
Interno del piano inferiore del primo negozio Fiorucci in Galleria Passarella a Milano fotografato dalla vetrina. Il negozio è stato ideato da Amalia Del Ponte nel 1967. Ph. Amalia Del Ponte. Courtesy Archivio Amalia Del Ponte.

Lo spazio galleggia nel bianco, terra cielo, ma fa eccezione una scala in ferro blu, al centro. Il volume è quello di una scultura minimalista, ma svuotata fin nello scheletro. “Tutto bianco opaco e lucido blu fiordaliso”, scriveva Camilla Cederna dalle pagine dell’Espresso, che ironizzava: “Nel sotterraneo ci si prova le scarpe seduti su sgabelli di ferro rubati a trattori e ad altre macchine agricole”. Amica di Arnaldo Pomodoro e di Enzo Mari, apprezzata da Bruno Munari che nel 1973, alla XII Biennale di San Paolo, si trova in commissione quando riceve uno dei più autorevoli premi alla scultura, per la prima volta a una donna.

La sua opera, come scriveva l’artista, era allora concepita per annullare una volta per tutte “lo spazio e il tempo, per cancellare i sensi e i pensieri e far riaffiorare l’Ineffabile”. Una scultura di riflessi, quindi. Un gioco plastico e illusivo, che irretisce lo sguardo. Una scultura che imprigiona lo spazio attraverso multiple visioni offerte dai suoi prismi in plexiglas, unico materiale che le garantisce una fuga dalla sua stessa opera, una frammentazione dei volumi. A seguire la strada prende altre vie, dall’acqua al suono. E il percorso continua, alla conquista di una nuova scultura, lingua viva.