Autrice: Cristiana Campanini - Art Around
Volume e corpo della scultura sfuggono come i riflessi mutevoli dell’acqua e del cristallo. L’opera di Amalia Del Ponte (Milano, 1936) si smaterializza fino a spalancarsi alla luce e addirittura al suono. Verve critica bruciante confluisce in una tensione verso l’assoluto nel suo lavoro. Da sempre sfuggente rispetto a qualsiasi posa leggera o mondana dell’arte, dedita a un impegno strenuo nella ricerca plastica, a coniugare arte e architettura in una sola visione, ma anche i suoi vasti interessi scientifici, dalla fisica alla mineralogia fino alla materialità del suono.
Allieva nell’aula di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera a fine anni Cinquanta, interpreta il suo lavoro nelle arti plastiche, fin dagli esordi, come una riflessione più vasta sullo spazio dell’opera.
Tutto ha inizio con la lettura del saggio “Scultura lingua morta” di Arturo Martini, pietra miliare per una generazione. Costante da allora è il tentativo di abbracciare una quarta dimensione, concepita come un volume da violare e da attraversare con lo sguardo o con il corpo.
Inizia i suoi studi su prismi e rifrazione della luce a metà anni Sessanta, prima sul cristallo di rocca, poi trafficando con le materie acriliche. Il plexiglas, che ha un indice di rifrazione simile al vetro e all’acqua, diventa in questo primo decennio il protagonista. La sua ricerca lambisce ben presto anche l’architettura, con progetti d’interni futuribili, tra appartamenti e negozi, ma anche borse, gioielli, oltre a multipli, ambienti, installazioni e opere sonore. «Per guadagnare la pagnotta», minimizza l’artista. «Non volevo sentirmi imbrigliata con una galleria, né impegnarmi nell'insegnamento così ho imboccato la strada del design».
Nasce Gulp, negozio in via Santo Spirito con nome da fumetto per pionieri del prêt-à-porter. Segue un emporio cult che fa epoca per decenni, Fiorucci in San Babila, opera d’arte totale, che accoglieva la sua personalità d’artista fin nella grafica del logo e nel packaging. Amalia Del Ponte apre lo spazio a plurime visuali. Smantella pareti. Buca tavelloni. Così lo rende trasformabile, ma anche permeabile allo sguardo e alla luce, per occhieggiare, fin dalla strada, le signorine in minigonna. Il gioco di specchi permette d’indagare nell’interrato, le moderne cenerentole alla prova di “scarpe beat e di sandali pop”.
Lo spazio galleggia nel bianco, terra cielo, ma fa eccezione una scala in ferro blu, al centro. Il volume è quello di una scultura minimalista, ma svuotata fin nello scheletro. “Tutto bianco opaco e lucido blu fiordaliso”, scriveva Camilla Cederna dalle pagine dell’Espresso, che ironizzava: “Nel sotterraneo ci si prova le scarpe seduti su sgabelli di ferro rubati a trattori e ad altre macchine agricole”. Amica di Arnaldo Pomodoro e di Enzo Mari, apprezzata da Bruno Munari che nel 1973, alla XII Biennale di San Paolo, si trova in commissione quando riceve uno dei più autorevoli premi alla scultura, per la prima volta a una donna.
La sua opera, come scriveva l’artista, era allora concepita per annullare una volta per tutte “lo spazio e il tempo, per cancellare i sensi e i pensieri e far riaffiorare l’Ineffabile”. Una scultura di riflessi, quindi. Un gioco plastico e illusivo, che irretisce lo sguardo. Una scultura che imprigiona lo spazio attraverso multiple visioni offerte dai suoi prismi in plexiglas, unico materiale che le garantisce una fuga dalla sua stessa opera, una frammentazione dei volumi. A seguire la strada prende altre vie, dall’acqua al suono. E il percorso continua, alla conquista di una nuova scultura, lingua viva.